HomeFotografiaBiennale di Venezia | Bit Culturali intervista Massimo Listri, fotografo di luce

Biennale di Venezia | Bit Culturali intervista Massimo Listri, fotografo di luce

Massimo Listri, Venaria Reale 02
Massimo Listri, Venaria Reale 02

Padiglione Italia 2011, la Biennale di Venezia è anche fotografia. Tra i tanti fotografi che espongono, incontriamo Massimo Listri, autore sensibile e raffinato. Listri è un fotografo di luce, la vuole, la cerca, lascia che illumini i suoi corridoi, le sue biblioteche, i suoi soggetti. Una luce che ricorda Piero della Francesca, Matisse, Balthus, artisti così diversi tra loro nella materia pittorica, ma accomunati dalla medesima concezione della luce. E, se differenza esiste tra fotografia e pittura, l’autore, con lo sguardo e il suo scatto, assottiglia le distanze, partecipando alle grandi ricerche dei maestri dell’arte, con l’autenticità e le peculiarità del mezzo fotografico. Forse ancora tra i pochi esempi di fotografia pura e diretta in epoca digitale. Come non lasciarsi andare attraverso i corridoi di Venaria Reale 02 (l’opera presentata alla Biennale 2011); nei muri i segni del tempo, lo spazio vuoto, scarno, testimonianza di un vissuto passato. Siamo attratti e sospinti verso la porta che si snoda tra numerosi passaggi. Ci chiediamo se è un luogo o un tempo. Se è un posto reale o uno spazio del nostro inconscio. Ed ancora la luce, candida, metafisica, quasi rassicurante. Un’altra magnifica porta agli albori della fotografia, ripresa da William Fox Talbot, era ostacolata da una scopa e lasciava intravedere un’ombra fitta. Nella Venaria, alla fine del percorso c’è la luce,  anche se le porte in sé sono il simbolo dell’ignoto, tutto qui si immerge nel bianco. Che sia una metafora della vita, che sia un’immersione di speranza alla fine di un percorso, chi può dirlo? C’è da attraversare quel corridoio, arrivare fino in fondo, magari alla fine non saremo che luce. Opera magnifica.

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Massimo Listri, come fare arte esclusivamente attraverso le capacità del mezzo fotografico tout court, senza particolari effetti ed ornamenti da  post-produzione o da neopittorialismo fotografico. Le sue immagini respirano, assorbono l’aria, ci portano attraverso corridoi contornati da libri, ci rivelano un mondo che sfugge ad occhio nudo, ma è prepotentemente lì, nei suoi occhi: si rivela attraverso il suo obiettivo. Come è nato il suo interesse per la fotografia? E soprattutto perché l’ha scelta come strumento privilegiato per le sue ricerche?

«Il mezzo fotografico, la macchina fotografica, tout court è come il pallone per un calciatore.
Se il calciatore è geniale come Maradona o Roberto Baggio il pallone fa traiettorie straordinarie, se il calciatore è un brocco il pallone rimane una sfera di cuoio e basta. Questo principio, questa realtà, vale anche per chi usa il mezzo fotografico.
Ho cominciato a 17 anni a fotografare.
La fotografia mi era congeniale per impossessarmi di una immagine, di un luogo, di una faccia o di una sensazione estetica.
Nulla è più rapido e affascinante della fotografia per chi vuol “possedere” quel che percepisce di poetico in un attimo.»

Credo che il suo lavoro sia un po’ di rottura rispetto ai filoni tradizionali della fotografia italiana. Sono rimasto stupefatto dalla serie sulle case antiche e sulle biblioteche. Il paesaggio è quasi sospeso, non c’è un tempo passato, ma un presente attivamente operante; in particolare nei suoi lavori su case abbandonate e vecchie si percepisce come lo stesso tempo logora, ingiallisce, tenta di risucchiare le cose. Non c’è malinconia però, ma la presa d’atto che anche in luoghi inanimati qualcosa si muove, lavora, trasforma: in questo caso il lento operare del tempo. Queste immagini ricordano la tradizione americana dei grandissimi, come Walker Evans, ma anche la scuola tedesca di Dusseldorf, rivisitate attraverso una luce nuova, che segna il valore aggiunto della sua opera. La luce è particolarmente evocativa, immerge il paesaggio come un mantello che viene dall’oltre. Come è nata questa serie? Cosa l’ha  ispirata?

«Le considerazioni critiche che Lei  fa ,con questa domanda sulla mia opera fotografica, sono anche la mia risposta….
Lei ha ben capito la mia ricerca artistica. È una rottura con i filoni tradizionali della fotografia italiana? Lo dice lei. A me va bene così. Infine come nasce un’opera d’arte è un mistero che bisogna lasciare all’inconscio. Come scriveva Marcel Proust “gli atti creativi procedono infatti non dalla conoscenza delle loro leggi, ma da una potenza oscura e incomprensibile che noi non rafforziamo illuminandola”».

In questi giorni gli amanti dell’arte potranno ammirarla al Padiglione Italia della Biennale di Venezia. Ci può parlare della sua opera esposta?

«Alla Biennale ho esposto la “Venaria Reale 02”;  è una fotografia di architettura che racchiude in sé la poesia metafisica della presenza assenza».

Ringraziamo Massimo Listri per essere stato nostro ospite a Bit Culturali. A quando la prossima mostra?

«Entro pochi mesi sarà realizzata una mia mostra di venti opere sul “Museo Pio Clementino”, di formato 200 cm X 250cm, ai Musei Vaticani in Roma. Nel 2012 un’altra personale a Taiwan e a metà 2012 un’altra personale al Museo di Arte Moderna di Bogotà».

Diego Pirozzolo

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