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Il cinema di Fernando León de Aranoa

Fernando León De Aranoa
Fernando León De Aranoa

Per il catalogo della personale di Fernando León de Aranoa, fiore all’occhiello del XXX Bergamo Film Meeting, Chiara Boffelli, curatrice della rassegna, ha scelto saggiamente di affidarsi, oltre che ai saggi critici scritti per l’occasione, a una bella intervista con l’autore e alle considerazioni stesse di quest’ultimo, chiamato a commentare uno per uno i suoi film, soffermandosi in particolare sui personaggi, sulle situazioni e sugli svolgimenti narrativi, attingendo a piene mani dai materiali di riflessione e di analisi che costituiscono solitamente l’ossatura delle sue sceneggiature. Sceneggiature che, come appare all’evidenza, posseggono una forte densità letteraria, nonché un solido impianto drammaturgico, quale solo raramente è dato riscontrare nel cinema d’autore, oggi.

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L’impressione che si ricava leggendo queste pagine è di trovarsi di fronte a uno sceneggiatore prestato alla regia, ovvero a un cineasta che va rivelando a se stesso la sua intima vocazione di romanziere. Lo stesso de Aranoa confessa di essersi deciso a passare dietro la macchina da presa dopo anni di oscuro lavoro come sceneggiatore perché stanco di assistere agli interventi che sui suoi copioni venivano compiuti da cineasti malaccorti (anche Pirandello, si sa, decise a suo tempo di farsi regista teatrale di se stesso proprio perché insoddisfatto del trattamento che veniva riservato ai suoi testi drammatici da parte di certi capocomici…).

Se la solidità degli script è indubbiamente uno dei punti di forza del cinema di de Aranoa (Familia, il suo lungometraggio d’esordio, è, sotto quest’aspetto, un’opera emblematica, costruita com’è su un gioco sottile e ambiguo, squisitamente pirandelliano, tra realtà e finzione, e attraversata, soprattutto nella seconda parte, da un fuoco di fila di colpi di scena degni di una pièce di Feydeau), su altri due aspetti si è concentrata sinora l’attenzione degli esegeti dell’autore: la capacità di utilizzare al meglio il contributo degli attori (star di prima grandezza, come Javier Bardem, o interpreti occasionali, scelti dalla strada e chiamati a recitare se stessi, come gli adolescenti di Barrio, riescono a essere con de Aranoa incredibilmente autentici, veri) e l’apertura sulla realtà sociale ( in un testo programmatico riportato nel catalogo, “Contro l’ipermetropia”, il regista spagnolo si dice disinteressato al cinema chiassosamente spettacolare che oggi va per la maggiore, e ribadisce la sua attenzione verso ciò che è vicino a noi, quella realtà quotidiana, “minore”, che abbiamo lì proprio sotto gli occhi, ma che non siamo più capaci di vedere…).

Siamo di fronte, dunque, a un cinema costruito a partire da storie solide, capace di aprirsi alla realtà e di valorizzare gli attori. Detto tra parentesi: ciò che fa di de Aranoa un buon regista è proprio quello che manca – in tutto o in parte – al cinema italiano contemporaneo, il quale è abituato ormai da decenni a utilizzare sceneggiature raffazzonate e inconsistenti, e a baloccarsi sulle paturnie ombelicali di autori narcisi e supponenti, incapaci, alla prova dei fatti, di dirigere il lavoro degli interpreti…

De Aranoa non è amato da tutti. V’è una parte della critica specializzata – quella francese, in particolare – che si è dimostrata alquanto severa nei suoi giudizi. Al cineasta spagnolo è stato rimproverato di avvalersi di una messa in scena “accademica”, reticente, priva di energia. In realtà, le scelte di regia di de Aranoa mirano alla funzionalità e all’efficacia narrativa, privilegiando uno stile volutamente umile e utile, modernamente scabro, laconico, disadorno. De Aranoa non è un visionario e il suo cinema non è un cinema che si esibisce, che fa sfoggio. Ma perché fargliene una colpa?

C’è anche chi, a ogni piè sospinto, tira in ballo il nome di Ken Loach. De Aranoa è il Ken Loach spagnolo, si continua a ripetere. Certo, anche qui i temi sono quelli del disagio sociale; le storie sono calate in scenari urbani desolati, segnati dalla crisi economica; i personaggi sono marginali: prostitute, operai che hanno perso il lavoro, adolescenti di periferia, immigrati clandestini. Vero è però che in de Aranoa è assente qualsivoglia implicazione dimostrativa, ideologica, polemica. Egli non intende dimostrare, ma mostrare, ovvero scoprire e rivelare – a noi spettatori, ma anche a se stesso – una condizione umana di afflizione. E questo attraverso l’incontro con individui con cui è riuscito a stabilire un rapporto di immediata empatia, di vicinanza. Quello che il suo cinema ci restituisce con precisione e insieme con pudore, è una realtà di malessere che però non ha ceduto alla disperazione. I suoi eroi vivono il tormento di un’assenza, di una mancanza (del lavoro, della famiglia, della sicurezza economica…), ma sanno reagire all’avvilimento, sanno resistere al richiamo insidioso della rassegnazione, ricorrendo alla fantasia compensatrice, alla solidarietà e, soprattutto, al potere liberatorio del riso.

I film di de Aranoa ignorano cosa sia la depressione. I suoi personaggi non si piangono mai addosso. Uno spiccato senso del comico – che è, insieme, del cineasta e dei suoi eroi, e assume le forme più disparate: dalla battuta dissacrante all’ironia sottile, all’umorismo macabro – pervade l’intera produzione del Nostro, divenendo, esso stesso, un segnale di resistenza, di vitalità non domata: la conferma che questi personaggi non hanno rinunciato al rispetto di sé, della propria dignità di uomini.

Nicola Rossello

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