HomeFotografiaLa fotografia come avanguardia artistica del Novecento

La fotografia come avanguardia artistica del Novecento

Magritte - Ceci n’est pas une pipeEdo continua a versare del Chianti e guarda una porta. Al pub ci si ritrova spesso, ormai. Se l’occasione per parlare di fotografia c’è stata data dalle atmosfere e dagli specchi di un locale alla Brassai, ora una porta in omaggio a Talbot quasi ci invita ad esplorare temi e spazi in cui la realtà si deforma, si astrae ed i soggetti si fanno concetto.
La fotografia è sempre stata considerata una prova inconfutabile del vero; il mondo, come appare ai nostri occhi, ne rappresenta il soggetto. Giovanni Ruskin, critico d’arte e scrittore inglese, sottolineava il “realismo sensazionale” delle immagini fotografiche.

Eravamo verso la fine del XIX secolo e il critico inglese, commentando entusiasta una lastra raffigurante Venezia, disse: “… è come se un mago avesse rimpicciolito la realtà, per portarsela via in un paese incantato”.
Talbot con la sua innovazione tecnica aveva definitivamente spalancato la porta non solo ad una nuova arte, ma anche a milioni di “maghi” di tutto il mondo capaci di fermare il tempo, “rimpicciolire” la realtà e “portarla” con sè in un “paese incantato” o forse, più semplicemente, sulla parete della propria casa. Eppure con Brandt la realtà stessa non si palesa in maniera così “sensazionale”; le ombre creano qualcosa di surreale, un altrove inconscio, un luogo dell’anima.

- Advertisement -

Fin dagli albori della fotografia si è aperto un forte dibattito tra i sostenitori del realismo documentale dell’immagine e i creativi che, al contrario, utilizzavano la fotografia come i pennelli i pittori.
Bisogna dar forma alla materia prima e solo un artista può farlo. Non è importante, sostenevano i creativi, la riproduzione fedele della realtà, ma l’adesione dell’immagine a quei principi rigorosi riconosciuti dalle belle arti.

Tocco la spalla ad Edo, sorseggio ancora il mio Chianti, le ragazze questa volta sono sedute al nostro tavolo, ci guardano attente, anche loro sono pronte: attraverseremo nuovamente la porta di Talbot, per esplorare la stanza ombrosa e lasciare la realtà. Ci attenderà un mondo astratto, concettuale: è il territorio delle avanguardie, fatto di forme e geometrie, pesi e volumi.
Entriamo allora, soggiunge Edo, siamo pronti.
Prima di addentrarci bisogna, però, liberarsi degli stereotipi propri della realtà, pulire con la scopa di Talbot i nostri preconcetti, astraendo le forme e i motivi dell’immagine, per interpretarli nel loro essenziale significato simbolico e di rimandi.
Mi viene in mente Magritte con la celebre frase “Ceci n’est pas une pipe” (Questa pipa, non è una pipa), per indicare che gli oggetti di uso comune, una volta scollegati dal loro contesto originario, perdono la loro funzionalità e diventano opera d’arte se l’artista riesce ad astrarli in maniera coerente e significativa.
Per Duchamp il valore aggiunto dell’autore si perfeziona nella mera operazione di selezione e astrazione dell’oggetto. Ne è prova Fountain, celebre opera in porcellana bianca, realizzata dall’artista francese nel 1917.
Wire Wheel di Paul Strand è dello stesso anno ed è l’esempio di come anche la fotografia riesce ad astrarre e fare arte contemporanea. Possiamo vedere solo il particolare di un’auto dell’epoca: il soggetto dell’immagine altro non è che un gioco di linee, curve e ombre in armonia tra loro. L’autore è un pupillo di Alfred Stieglitz, ed è indubbio che il suo lavoro sia stato influenzato dall’incontro con il maestro.

Gallerista, editore, fotografo, Stirglitz ha offerto un grande contributo all’affermazione della fotografia artistica e alla cultura americana. La foto Fountain è stata scattata da lui per illustrare la mostra di Duchamp a New York, dove presentò per la prima volta l’opera di porcellana. L’accoglienza alla Fountain non fu delle migliori, anzi i responsabili del museo volevano addirittura coprirla. Stieglitz, però, aveva visto giusto nel promuovere l’opera; oggi è addirittura considerata la più rappresentativa del Novecento.
Non resta dunque che fare un salto a New York e renderci conto di persona del grande impegno di Alfred e delle sue intuizioni artistiche, che eleveranno a forma d’arte la fotografia.

Edo ride divertito. Se fosse così facile essere catapultati a Parigi seguendo una foto di Brassai, per poi ritrovarsi a New York spostando la scopa di Talbot, allora potremmo essere capaci di viaggiare nel mondo e nel tempo in un solo istante. Una battuta? Sì, certo, ma nella semplicità dell’osservazione c’è una delle più belle e affascinanti definizioni della fotografia: un istante per il quale le foto scattate dai fotografi per raccontare le proprie storie possono anche “non avere niente a che fare con l’originale contesto narrativo della fotografia, con l’intento del suo creatore o con la modalità di fruizione del suo pubblico in prima battuta”. Un’affermazione di Marta Sandweiss, che sottolinea la capacità di vita propria delle foto, una capacità che, in ultima analisi, discerne ciò che è arte da ciò che rimane una buona foto.
Ma siamo a New York, bisogna far visita alla galleria di Stieglitz. Continuate a seguirci.

Diego Pirozzolo

Articoli correlati:

Dialogo con la fotografia. Nella notte di Brassaï

Paris de nuit

Dai marciapiedi di Parigi a “The Open Door” di William Henry Fox Talbot: giochiamo con le ombre

Bill Brandt, ai confini tra il reale e il surreale

Alfred Stieglitz

- Advertisement -
- Advertisement -

MOSTRE

- Advertisement -

LIBRI