
“La realtà, il quotidiano, possono rivelare aspetti strani, meravigliosi”
(Leonor Fini)
“Leonor unisce in sé due grazie: l’infanzia e la maestà”
(Elsa Morante)
Una pittura che sorprende e sconcerta, quella di Leonor Fini (1907-1996), un’artista dal temperamento inquieto, volitivo, e dagli interessi molteplici, che nel corso della sua lunga carriera ha praticato linguaggi espressivi differenti (è stata pittrice di fama, costumista e scenografa teatrale e cinematografica, illustratrice, scrittrice, fotografa, designer), accostandosi alle sperimentazioni linguistiche e formali delle più diverse avanguardie (tra i suoi compagni d’arte, a Trieste, il pittore metafisico Arturo Nathan; a Milano, Achille Funi, con cui collaborò e che la inizierà ai modi del gruppo Novecento; a Parigi, la cerchia dei Surrealisti: Max Ernst, Salvador Dalì, Man Ray, Victor Brauner, Leonora Carrington; e poi ancora a Roma, Fabrizio Clerici, altro artista difficilmente incasellabile), conservando pur sempre nei suoi dipinti una cifra stilistica personale, indipendente, e dando vita a un proprio, peculiare e inconfondibile universo fantastico.
La si è voluta arruolare tra i Surrealisti, che Leonor frequentò negli anni Trenta e Quaranta e assieme ai quali espose a Londra e a New York, ma al cui movimento rifiutò sempre di accasarsi in forma ufficiale (la formazione classicista della Fini, la sua passione per il primo Rinascimento e per i Preraffaelliti influenzarono le sue scelte formali, allontanandola fatalmente dalle intemperanze iconoclaste di André Breton). Con il progetto estetico surrealista la Fini condivideva il gusto per i paradossi visivi e per la metamorfosi delle forme; l’interesse a esplorare, sulla scorta delle teorie freudiane, la logica dei sogni, i meandri dell’inconscio; la volontà di rappresentare gli spazi interiori, le piaghe più remote e inesplorate dell’animo umano. Un’attitudine, quest’ultima, che nella sua produzione pittorica diventa riscoperta degli aspetti sotterranei e profondi del femminile.
Come ben mette in luce la personale attualmente in corso a Palazzo Reale a Milano (aperta sino al 22 giugno 2025, curatori Tere Arcq e Carlos Martín), la donna è sempre stata al centro delle invenzioni della Fini. Nelle sue tele, figure femminili fiere, dominanti, dalla fisicità possente, avvolte da drappi dai colori accesi, sembrano regnare su paesaggi arcaici, primordiali, scenari immersi in un’atmosfera onirica, disseminati da inquietanti segnali di morte: teschi, ossa e nervi di animali. Al loro fianco si accampano talora esseri ambigui, lunari, dai confini sessuali incerti, o, ancora, felini, sfingi o altre creature bizzarre, ibride, in bilico tra forme bestiali e umane.
Ne Le bout du monde, 1948, Leonor si ritrae come una fanciulla dai capelli argentei e lo sguardo fisso davanti a sé, mentre emerge sino al busto da un mare nero su cui galleggiano carcami, rami secchi, foglie morte. L’immagine di lei riflessa nelle acque scure è quella di una creatura terrifica, a ribadire l’interesse per il tema del doppio che per la Fini fu motivo costante e ossessivo. In altri dipinti di enigmatica suggestione, intrisi di un erotismo sottile (L’alcôve, 1941, Femme assise sur un homme nu, 1942, Divinità ctonia che veglia sul sonno di un giovane, 1946, Stryges Amaouri, 1947, Dans la tour (Autoportrait avec Constantin Jelenski), 1952), ancora una volta è la donna a dominare la scena, guidando il passo esitante, o sorvegliando il sonno catalettico di un giovane uomo, una figura estenuata che nella sua indifesa nudità pare afflitta da una sorta di malsano torpore. In queste composizioni l’immaginario di Leonor Fini prevede l’assoggettamento maschile a un femminile guerriero, glorioso, inavvicinabile.
Vi sono poi una serie di immagini ermetiche, fissate in una dimensione di incantata immobilità, opere dai colori accesi e dalle linee sinuose, che richiamano talora alla memoria il lirismo decorativo di Beardsley e dell’art nouveau: Autoritratto con civetta, 1936, L’arma bianca, 1936, Autoportrait avec Charlie Holt, 1939, Asphodèle, 1963, Narcisse incomparable, 1971, La stanza dell’eco, 1974, Rasch, Rasch, Rasch, mein Puppen Warten!, 1975, Ea, 1978: immagini fantastiche e capricciose e, al tempo stesso, lucide e precise, giocate sulla tensione tra mistero e bellezza. Altri dipinti paiono immersi in un’atmosfera incerta, angosciosa, spettrale, prossima a certe fantasie paurose di Füssli (L’ange de l’anatomie, 1949, La guardiana delle fenici, 1954, La cérémonie, 1960, Mefisto, 1960, L’eletta della notte, 1986, Qui est-ce?, 1991). Anche qui la potenza creatrice dell’artista non rinuncia mai a conferire densità alle figure, ritmo ed equilibrio alla composizione.
La stessa inesauribile fantasia, le stesse incandescenze ornamentali, sembrano animare le incursioni della Fini nel campo della moda, o ancora nella realizzazione dei costumi di scena (per Visconti, per Fellini, per Strehler, per il Teatro alla Scala, per l’Opéra di Parigi: una produzione a cui la rassegna di Milano riserva una sezione specifica).
Il percorso espositivo si chiude con l’Autoritratto dal cappello rosso, 1968, una tela impostata sull’esuberanza dei contrasti cromatici, con cui l’artista offre di sé una volta ancora l’immagine di una donna forte e risoluta.
Nicola Rossello