
A tutta prima l’accostamento tra Lucio Fontana (Rosario, Argentina, 1899 – Comabbio, 1968) e Giorgio Morandi (Bologna, 1890 – 1964), due maestri diversissimi l’uno dall’altro – per carattere, formazione culturale, modi di intendere il gesto creativo –, può apparire sorprendente.
“Fontana”, ha scritto Vittorio Sgarbi, “rifiuta l’arte dei pennelli e degli scalpelli”. Partito da un’esperienza figurativa (era stato allievo di Adolfo Wildt all’Accademia di Brera), alla fine degli anni Quaranta realizza un totale distacco rispetto a tutto lo svolgimento dell’arte del passato. Il suo fare creativo non mira più a rappresentare o a reinterpretare la realtà oggettiva. L’atto di lacerare e perforare la superficie della tela con lunghi tagli verticali e paralleli, o con buchi di varia grandezza, si configura inevitabilmente come un gesto risoluto, provocatorio, di sfida nei confronti dell’ordine tradizionale del linguaggio: un gesto dagli effetti destabilizzanti, condotto con “laconica, lucida infallibilità” (Marco Di Capua), in cui la trasgressione confina con il rifiuto iconoclasta della cultura figurativa classica.
Morandi, anche nella fase finale del suo percorso pittorico, quando le atmosfere dei suoi quadri si fanno sempre più rarefatte ed evanescenti, ed egli sembra inavvertitamente accostarsi all’arte astratta, rimane pur sempre ancorato a una pittura di solido impianto figurativo, trovando nella natura morta e nel paesaggio i generi a lui congeniali, frequentati con assidua, quasi esclusiva insistenza, attraverso i quali condurre la propria ricerca.
Tant’è, Maria Cristina Bandera e Sergio Risaliti, i curatori della rassegna in programma sino al 14 settembre 2025 al CAMeC – Centro d’Arte Moderna e Contemporanea di La Spezia, hanno inteso accostare le creazioni di Fontana e Morandi per rinvenirvi punti di convergenza non occasionali, nuclei di interesse comune. “Non c’è contrasto, ma una tensione comune”, precisa Sergio Risaliti. “Entrambi si confrontano con l’idea dell’infinito, uno attraverso la rarefazione della visione, l’altro attraverso il gesto radicale”.
In sostanza ciò che avvicina il pittore dei tagli e il pittore delle bottiglie è la rinuncia a riprodurre la realtà fenomenica: la volontà di indirizzare “lo sguardo verso l’infinito e l’invisibile”.
Lavorando per sottrazione, Morandi si è dedicato alla “poesia senza tempo del colore e della forma”. I suoi spogli e silenti paesaggi emiliani, restituiti attraverso tonalità sommesse e austere, sono immersi in un tempo sospeso (in mostra spiccano un magnifico Paesaggio con grande pioppo, del 1927, il Cortile di via Fondazza, del 1958, e un tardo Paesaggio, del 1961). Le bottiglie e gli altri umili oggetti di uso comune che compongono le sue ormai celebri nature morte, appaiono calati in uno mondo altro, irreale, sottratto alle contingenze spazio-temporali (Natura morta, 1947, Museo Morandi di Bologna; Fiori, 1948, GAM di Torino; Natura morta, 1956, Collezione Banca Monte dei Paschi di Siena).
Fontana insegue un’inedita concezione dell’arte facendo tabula rasa, attraverso varchi e fenditure, dei limiti fisici, bidimensionali della pittura. Lacerando a colpi di rasoio la superficie del quadro dipinto a tinte uniformi, egli sperimenta un rapporto nuovo tra la tela e gli spazi misteriosi, incommensurabili, ignoti, che si aprono oltre il vuoto prodotto dai tagli e dai buchi: un vuoto che, come accade nelle Attese esposte a La Spezia (notevoli, in particolare, le idropitture in rosso del 1961 e 1967, così come taluni Concetti spaziali: la Fine di Dio, 1963, il Teatrino, 1965, l’Ellisse e la Pillola, 1967), acquista una dimensione cosmica, leopardiana.
Nicola Rossello