
La pittura postmacchiaiola ha una precisa data di nascita: il 1888. Quell’anno Plinio Nomellini, l’allievo prediletto e di maggior talento di Giovanni Fattori all’Accademia di Belle Arti di Firenze, dipinge Il fienaiolo. Di fronte a quell’opera, che, discostandosi dalla consacrata tradizione della Macchia, sembra echeggiare le nuove tendenze artistiche fin de siècle, Fattori reagisce indirizzando al discepolo una lettera nella quale lo metteva in guardia dal rischio di lasciarsi ammaliare dalle sirene d’Oltralpe: il rischio, scriveva il venerato maestro, era quello di diventare “un servo umilissimo di Pissarro e Manet”.
Di fatto, Nomellini e i giovani pittori della sua cerchia (molti di loro erano livornesi e si uniranno in seguito nel cosiddetto Gruppo Labronico) avvertivano in quegli anni l’esigenza di guardare anche a ciò che andava accadendo in Europa, a Parigi in particolare, e di aggiornare il proprio linguaggio figurativo alla luce dei nuovi orientamenti artistico-culturali che emergevano sulle rive della Senna.
Considerati a lungo poco più che degli epigoni, o comunque dei ritardatari, negli ultimi decenni i postmacchiaioli sono divenuti oggetto di una piena rivalutazione, grazie anche a una serie di importanti retrospettive e approfondite analisi critiche. A essi, indubbiamente, va riconosciuto il merito di aver saputo traghettare la pittura italiana di fine Ottocento (sono gli anni in cui volgeva fatalmente al termine l’età aurea della Macchia toscana) verso l’arte moderna.
Nonostante i reciproci, innegabili influssi, gli eredi dei Macchiaioli non costituirono un gruppo compatto e omogeneo, con una linea comune e condivisa. Come lascia ben intendere la rassegna attualmente in corso al Palazzo della Meridiana di Genova (visitabile sino al 13 luglio 2025; curata da Simona Bartolena, con la collaborazione di Armando Fettolini), per alcuni di essi il discepolato presso Fattori giocò un ruolo in qualche modo vincolante e li indusse a restare a lungo fedeli al dettato della Macchia. Si pensi a opere come Le mogli dei pescatori (L’attesa) o Ragazzo su un muretto o Lungomare a Livorno di Angiolo Tommasi, in cui si avverte la vicinanza alla lezione di Lega e Signorini, o ancora Sosta di artiglieria o Carri in strada di Luigi Gioli, Ufficiale a cavallo di Ruggero Panerai, Pini marittimi di Giovanni Bartolena, dove la discendenza fattoriana emerge all’evidenza.
Ci fu invece chi imboccò con decisione un percorso di ricerca autonomo. Nei lavori maturi di Nomellini e di altri esponenti della nuova leva toscana i residui del naturalismo tardomacchiaiolo convivono con l’attenzione verso le potenzialità espressive del colore, i violenti e liricizzanti contrasti cromatici. S’impone in questi artisti la rinuncia alla definizione precisa della forma: il dato coloristico prende il sopravvento sul rigore costruttivo della composizione, su cui invece insisteva l’insegnamento di Fattori.
In alcuni casi è presente il ricorso alla tecnica divisionista (di un divisionismo che, caricato sulle prime di istanze sociali, finirà per intridersi di venature simboliste: Sera toscana di Giorgio Kienerk, Mattina in Val di Pesa di Llelwelyn Lloyd, Strada con figure di Nomellini). Altra matrice significativa per taluni postmacchiaioli fu l’esperienza coeva dei fauves. Si pensi alla maniera esacerbata e impetuosa, pre-espressionista di Ulvi Liegi, che perviene talora a un uso antinaturalistico del colore (Bagni Peiani, Monachine a Castiglioncello); si pensi ai febbrili, audacissimi impasti cromatici di Mario Puccini (Il fienaiolo), alle accensioni di Lodovico Tommasi (Buoi aggiogati).
La rassegna, che propone una cinquantina di quadri provenienti da collezioni pubbliche e private, è scandita in cinque sezioni, l’ultima delle quali è riservata al rapporto tra gli artisti postmacchiaioli e il paesaggio della Liguria. È risaputo come Riomaggiore, allora poco più di una borgata di pescatori, sia stata una meta prediletta da Telemaco Signorini, che vi soggiornò a più riprese e la descrisse in diversi suoi dipinti (Il rio a Rio Maggiore, Riomaggiore). Anche altri eredi della Macchia frequentarono il Levante ligure attratti dalla dolcezza dei paesaggi e dalla qualità della luce, traendone immagini di grande suggestione poetica: Barca a Sestri, Vicolo a Sestri Levante di Alfonso Hollaender, Lo scoglio di Quarto di Nomellini, Mezzodì alle Cinqueterre, via di Riomaggiore di Adolfo Tommasi. Per ciascuno di essi la Riviera ligure, con la sua natura incontaminata e i suoi panorami a picco sul mare, rappresentò una felice scoperta, come era avvenuto alcuni anni prima con le coste normanne per gli Impressionisti.
Nicola Rossello