Valzer

Si fa presto a parlare di rinascita del cinema italiano. Un paio di buoni film al festival di Cannes non fanno certo primavera. Quando poi capita di imbattersi in una pellicola come Valzer di Salvatore Maira (presentata l’altr’anno a Venezia), viene da pensare che nel nostro Paese l’imperizia inveterata a pensare al racconto in termini filmici sia cosa dura a morire.

Maira sceglie dunque di girare il suo film utilizzando un unico, interminabile piano sequenza. Una sfida tecnica di certo non nuova (l’hanno già sperimentata Hitchcock e Sokurov), ma che qui si traduce in un virtuosismo stilistico fine a se stesso, che costringe gli attori (un cast alquanto disomogeneo) a una recitazione stonata, di piatto spessore.

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Ma le note dolenti iniziano a partire dal plot, di cui è responsabile lo stesso Maira: una sceneggiatura velleitaria e macchinosa, imbastita attorno a due fuochi narrativi: da un lato, la denuncia del diffuso cinismo e della perdita dei valori etici nella società contemporanea; dall’altro, la storia dello strano incontro tra due anime innocenti, umiliate dalla vita, ma che hanno saputo conservare, esse sì, rettitudine e purezza interiore.

C’è unità di luogo (il film è girato quasi per intero in un lussuosissimo albergo di Torino) e una temporalità che accavalla a più riprese presente e passato.
Il tutto asfissiato da dialoghi impossibili, ora piattamente didascalici e sentenziosi (soprattutto laddove il regista intende dar voce alla protervia e alla dispotica arroganza dei nuovissimi ricchi), ora tendenti a certo minimalismo di maniera (quando si vuol cogliere l’amaro sconforto degli offesi).

Nicola Rossello

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