Si può fuggire dalla civiltà occidentale; con un volo aereo questo è possibile. Cercare l’avventura in mondi lontani, fantastici, guizzanti di novelle e di fiabe, vagare alla ricerca di un oriente, lento, spirituale, mitologico, si può? Certo, con un aereo, un treno, un auto o a piedi come i pellegrini di Hermann Hesse; ma ciò che si scoprirà è un ambiente che, seppure molto suggestivo, è diverso da quello che abbiamo sempre immaginato con la nostra fantasia. Ciò che si avverte è uno scarto tra il sogno e il reale.
Esistono però delle possibilità per cercare i luoghi dell’immaginazione, e sicuramente ammirare le opere di Alighiero Boetti rappresenta una di queste possibilità.
Dal 23 gennaio al Maxxi di Roma è possibile visitare una mostra che raccoglie alcuni dei suoi lavori migliori ed in particolare quelli realizzati nel periodo romano. Scrive la compagna, Anne Marie Sauzeau, che Alighiero aveva “l’illusione che Roma fosse già Palermo e Palermo già Il Cairo”. Roma era considerata dall’artista un “avamposto verso l’Oriente”. Nella città capitolina inizierà un percorso nuovo nel quale Boetti svilupperà un suo stile totalmente diverso rispetto alla sua precedente produzione nel filone dell’ “arte povera”. Il colore diventerà un assoluto protagonista nelle sue tonalità più accese e multiformi: “Ho scoperto a posteriori – scriveva l’artista – che a Torino non usavo mai i colori. Forse percepisco il troppo rigore della città … mentre qui a Roma ho capito la bellezza di fare molto, di fare più rapidamente, di allargare, di facilitare”.
Roma diventa, dunque, una città per sperimentare, un avamposto per partire in posti lontani. Da quando vive nella capitale comincia a firmarsi con “Alighiero e Boetti”: l’aggiunta della congiunzione “e” implica due sfere distinte se pur comunicanti, quella privata di “Alighiero” e quella pubblica di “Boetti.”
E di viaggi lui sì ne farà in Oriente. Rimane folgorato dall’Afghanistan, nel quale soggiornerà almeno due volte l’anno, dando vita ad una sorta di Factory afghana: un laboratorio in cui con sapiente perizia vengono realizzati i suoi splendidi arazzi.
Appena si entra al Maxxi, nelle aree riservate alla mostra, si rimane subito colpiti da un grande arazzo posto al centro della sala e raffigurante la mappa del mondo. Quando ci si avvicina, il rapporto cambia, si notano le trame della tela, la corposità del colore, la precisione della trama. L’opera ha una prospettiva selettiva, una tridimensionalità controllata, che restituisce all’osservatore sensazioni tattili oltre che visive, ed il piacere inconfessato, ma sognato, di lasciarsi andare nell’oceano o in quei territori contrassegnati dalle bandiere dei singoli Stati.
Parlavamo di viaggi ed è certo che da fanciulli una mappa del mondo era la prima attrazione per fantasticare di posti lontani. Da quelle mappe sono nati viaggi concettuali in luoghi improbabili, scelti per il nome suggestivo e per il colore sulla piantina. Luigi Ghirri ha dedicato un’intera opera alle fotografie dell’atlante e delle mappe, intese come porte verso viaggi fantastici ed immaginari. Gli arazzi di Boetti, al contrario, non sono solo immagini, ma hanno una trama, una storia fatta di lavoro certosino, una suggestione alla fonte perché realizzati dai discendenti di donne artigiane che ricamano fin dalla notte dei tempi. Ma sono anche arazzi pop, nel senso più autentico del termine, ossia comprensibili da tutti in modo democratico, non solo da quei pochi intenditori con barba, pipa e giacca di tweed. Egli propone un linguaggio visivo semplice ed estremamente profondo al pari di un vangelo: ognuno di noi, colto e non, può trarne un messaggio. Il perimetro delle mappe è impreziosito da un testo colorato con la firma, la data ed alcuni pensieri dell’autore. Boetti stesso considera questi lavori come “ il massimo della bellezza. Per quel lavoro io non ho fatto niente, non ho scelto niente, nel senso che: il mondo è fatto com’è e non l’ho disegnato io, le bandiere sono quelle che sono e non le ho disegnate io, insomma non ho fatto niente assolutamente; quando emerge l’idea base, il concetto, tutto il resto non è da scegliere”.
Nelle sale del Maxxi ci si lascia andare con piacere, tra un’opera e l’altra, tra mondi ricamati e la magnifica serie delle frasi colorate su preziosi arazzi “Poesie con il Sufi Berang”, collocate una vicino all’altra nell’ultima sala della mostra, come a formare una parete parlante fatta di colori e pensieri dell’autore alternate a poesie in farsi appositamente realizzate dall’afghano Sufi Berang. Se si gira un angolo, appena entrati, ci si trova davanti l’opera il “Tutto”, splendido melting pot di oggetti uno sull’altro ricamati e decontestualizzati, posti lì senza un ordine logico, ma quasi seguendo un criterio surrealista di richiami automatici direttamente dall’inconscio. Si perde molto tempo a riconoscere gli oggetti, perfino ad un vernissage affollato di visitatori, ci si può astrarre inventandosi percorsi logici sul “Tutto” e ti rendi conto della piacevolezza del gioco e dei richiami: leggero e gustoso rapporto tra l’osservatore ed il tutto.
Nell’angolo opposto, invece, sono esposte opere di altri due artisti che sono stati in rapporto con Boetti: Francesco Clemente e Luigi Ontani. Il curatore intende così mostrare le connessioni, gli intrecci e le risonanze fra le loro opere e quelle dell’artista, in un dialogo che evidenzia “il panorama di vitalità e di esuberanza creativa che investe la generazione degli anni Settanta”.
Il Maxxi celebra Boetti come uno dei più grandi maestri italiani dell’ultimo Novecento. Lo fa in grande stile dedicandogli la piazza antistante il museo. “Alighiero Boetti è uno dei padri dell’arte contemporanea italiana – sostiene Giovanna Melandri, Presidente della Fondazione Maxxi – il suo lavoro è ancora oggi denso di suggestioni per tutti i giovani artisti e il MAXXI gli rende un giusto omaggio. Un museo come il MAXXI, per sua natura proiettato nel futuro, non può infatti perdere di vista le radici da cui nasce la cultura contemporanea” .
La mostra prodotta dal MAXXI Arte e curata da Luigia Lonardelli, potrà essere visitata fino al 6 ottobre 2013.
Diego Pirozzolo