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Artisti dall’ Africa Subsahariana in mostra a Milano

Dimitri Fagbohoun, Les Patriotes, 2012. Installazione, percussioni - Mostra We call it Africa
Dimitri Fagbohoun, Les Patriotes, 2012. Installazione, percussioni – Mostra We call it Africa

La galleria Officine dell’Immagine di Milano ospita, dal 9 febbraio al 2 aprile 2017, la collettiva “We call it Africa. Artisti dall’Africa Subsahariana”.
La mostra, a cura di Silvia Cirelli, è interamente dedicata al complesso e multiforme panorama artistico dei Paesi della cosiddetta Africa Subsahariana.

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Dimitri Fagbohoun (Benin), Bronwyn Katz (Sudafrica), Marcia Kure (Nigeria) e Maurice Mbikayi (Repubblica Democratica del Congo) sono gli interpreti invitati a raccontare le tante contaminazioni nell’arte di temi di grande attualità, concentrandosi su questioni socioculturali, identitarie e geopolitiche, particolarmente rappresentative della complessa realtà africana.

Aprono l’esposizione i lavori del congolese Maurice Mbikayi (1974), la cui pratica artistica si concentra sull’impatto della tecnologia nel tessuto sociale africano e sulla triste realtà delle discariche di rifiuti elettronici che stanno letteralmente avvelenando l’Africa.
Alle installazioni realizzate interamente con materiali di riciclo tecnologico, l’artista affianca opere che indagano il tema del dandismo nella quotidianità congolese, un fenomeno molto diffuso che adotta, oltre a una certa eccentricità nell’abbigliamento, anche uno specifico modello etico.

Seguono i lavori di Marcia Kure (1970), che s’interroga invece sugli effetti del post-colonialismo e la conseguente frammentarietà identitaria e sociale. Il suo è un vocabolario estetico che punta su un immaginario poliedrico dove convivono tradizione – molti i riferimenti alla pittura uli praticata dalle donne nigeriane del passato – e ispirazioni prettamente metropolitane, espressione invece di una cultura contemporanea.

L’intreccio di suggestioni spesso in contrasto fra loro torna anche nella pratica artistica di Dimitri Fagbohoun (1972), che spazia fra scultura, video e installazioni, spingendo verso un eclettismo grammaticale che esalta temi quali il ricordo, la politica, la religione e la dimensione poetica dell’esistenza. In una narrazione visionaria che gioca sugli equilibri fra visibile e non visibile, l’artista si confronta con la vulnerabilità dell’essere umano, esplorandone i processi di creazione e distruzione.

La mostra si chiude con la giovane Bronwyn Katz (1993), che stupisce con una ricerca artistica dal complesso potere immersivo. Al centro della sua cifra stilistica, l’importanza della terra come depositaria ma anche custode della memoria culturale sudafricana, una memoria che nasconde le cicatrici di una storia che ha visto prima il colonialismo e ora un feroce neocolonialismo economico. L’aspetto sensoriale risulta dominante nella trama estetica di questa talentuosa interprete, capace di svelare con timida urgenza, un universo che da privato, diventa ben presto collettivo.

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