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Nomadland, un film di Chloé Zhao – Recensione

Locandina del film Nomadland

Nomadland coniuga insieme i modi di un road movie anomalo, liberato dalla necessità di una narrazione forte (il racconto si articola intorno a una serie si segmenti a sé stanti, pause, dialoghi divaganti), e quelli di un documentario sociale “lirico”, dove un gruppo di attori non professionisti, autentici nomadi che sullo schermo reinterpretano se stessi, sono calati nel paesaggio della provincia americana: uno scenario maestoso e silente, che la fotografia di Joshua James Richards immerge in un’atmosfera di luce crepuscolare.

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Chloé Zhao (suo il bellissimo Song my brothers taught me, del 2015) ci parla qui dei nuovi nomadi che popolano le strade dell’America profonda; descrive il loro modo di vivere, la loro dignità, il loro rifiuto di piangersi addosso. E lo fa senza mai indugiare nel miserabilismo. Nel contempo disegna il ritratto di una donna non più giovane, ma ancora fiera, generosa, volitiva (Frances McDormand, con David Strathairn, l’unica attrice professionista del film). Vedova, costretta a lasciare la casa dell’azienda dove lavorava e da cui è stata licenziata, Fern si mette alla guida del suo camper, che è diventato la sua nuova abitazione, e attraversa in lungo e in largo gli stati dell’Ovest, dal Dakota meridionale alla California, in cerca di qualche nuova occupazione.

Tra un lavoretto occasionale e l’altro, trova anche il tempo per visitare parchi e musei e ricerca nel contatto diretto con la natura un conforto alla propria inquietudine (la scena in cui fa il bagno nuda in un torrente; quella in cui ascolta rapita la lezione di un astronomo sulla luce delle stelle). Il suo peregrinare si consuma tra incontri fugaci, che pure la arricchiscono interiormente: con un ragazzo – poco più di un adolescente – che insegue un solitario desiderio di fuga e di autoemarginazione; con un gruppo di diseredati, gente per lo più di là con gli anni, che la crisi finanziaria ha gettato sul lastrico, e che ora sono costretti a spostarsi in continuazione da un luogo all’altro, impegnandosi in lavori saltuari e mal retribuiti.

Fern ha modo di confrontare le proprie scelte con quelle di quanti condividono con lei un’esistenza errabonda. Nella sua decisione di vivere sulla strada sembrano emergere allora, accanto alle motivazioni economiche, altre motivazioni inconfessate e contraddittorie: l’irrequietezza che era in lei già negli anni dell’adolescenza; la perdita dolorosa del marito, al cui ricordo essa si sente ancora legata. Di sicuro Fern non insegue la sicurezza che un’esistenza stabile e “normale” potrebbe offrirle: la sorella le propone di tornare a vivere con lei, ma Fern rifiuta; così come rinuncia all’amore di Dave e all’opportunità di sistemarsi nella sua fattoria. Ritorna sulla strada, ben consapevole che l’esistenza raminga che conduce sia priva di prospettive. Come gli antichi pionieri, essa accetta il nomadismo come una necessità ineluttabile. La grande solidarietà che stabilisce con gli altri diseredati le consentirà di superare la solitudine e lo sconforto.

Nicola Rossello

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