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“Giovanni Boldini e il mito della Belle Époque” – Mostra ad Asti

Giovanni Boldini, La signora in rosa, 1916 Olio su tela, 163x113 cm, Museo Giovanni Boldini, Ferrara
Giovanni Boldini, La signora in rosa, 1916, Olio su tela, 163×113 cm, Museo Giovanni Boldini, Ferrara

Il 1871 segna un decisivo punto di svolta nella parabola artistica di Giovanni Boldini. Nel settembre di quell’anno il pittore ferrarese lascia Londra, dove ha acquisito una solida fama come ritrattista della buona società inglese, e si trasferisce definitivamente a Parigi. Ad attenderlo c’è un Paese umiliato dalla disfatta di Sedan, che ha assistito con sgomento ai giorni tragici della Comune, ma che ora vuole lasciarsi alle spalle quei cupi ricordi e riassaporare il benessere del Secondo Impero. È la Francia della Terza Repubblica, della nuova borghesia emergente che si appresta a celebrare i fasti della Belle Époque: un mondo raffinato, scintillante, cosmopolita, di cui Boldini saprà farsi osservatore attento, intercettandone ideali, esigenze, aspirazioni, gusti.

Illustratore acuto e brioso della vita mondana e dei salotti dell’alta società parigina, di cui fu frequentatore assiduo, Boldini si applicherà soprattutto alla formula del ritratto femminile, realizzando nei decenni a venire una nutritissima serie di dipinti di immediato, strepitoso successo. Le sue gentildonne bellissime, fasciate nei loro abiti spumeggianti, fecero presto di lui un raffinatissimo maestro di stile, coccolato da una ricca clientela internazionale, il pittore simbolo di un’epoca. Ha scritto bene Fernando Mazzocca: come Sargent e Sorolla, Boldini “seppe interpretare il proprio tempo e proiettarlo nel grande spirito della tradizione, confrontandosi con gli antichi maestri”.

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Le gran dame eleganti e fiere da lui ritratte nel fiore della loro giovinezza si presentano a noi con l’allure spavalda e altera di donne pienamente consapevoli del proprio potere seduttivo, signore libere e disinibite, che sembrano respirare il clima di emancipazione femminile del tempo. Ma Boldini, negandosi a ogni intenzione banalmente celebrativa, cala su ciascuna di esse il suo occhio di analista, cogliendone dal vivo la malinconia segreta, il senso della caducità della bellezza mondana che traspare da quegli sguardi imperiosi, dalla mimica nervosa e sofisticata dei volti e dei corpi.

Lasciatasi definitivamente alle spalle l’esperienza macchiaiola, Boldini adotta, come ritrattista, una forma narrativa moderna, sprezzata, sfrangiata, sfavillante, fatta di pennellate veloci e vorticose, vibranti, che restituiscono il dinamismo inquieto del soggetto effigiato, l’impressione del movimento. È una pittura, la sua, di grande immediatezza espressiva, che mira a sfaldare le forme, immergendole in un’atmosfera vaporosa, sensuale; una pittura la cui facilità apparente maschera di fatto la precisione nervosa, mai casuale, del segno.

Nell’andamento concitato, quasi febbrile, di alcune sue composizioni qualcuno ha voluto leggere un precorrimento del Balla futurista, complice il “fotodinamismo” di Bragaglia. Può essere. Va comunque ricordato come Boldini, la cui produzione proseguì copiosa anche nei primi decenni del Novecento, rimase sempre estraneo alla linea sperimentale delle avanguardie storiche, garantendo attraverso il suo lavoro la continuità del gusto ottocentesco e della tradizione. Anche di questo, credo, dovremmo essergli grati.

Allo straordinario successo che arrise a Boldini negli anni del suo soggiorno parigino (fu l’artista più pagato del suo tempo), è seguito, dopo la sua morte, un sensibile ridimensionamento critico, lo stesso che è toccato a tutto l’Ottocento fin de siècle che non ha accettato di sottomettersi al verbo modernista (o a quello del realismo sociale) e si è lasciato ammaliare dalle esigenze del mercato, nonché dagli ozi lussuosi e indolenti della gente di alto rango. La rivalutazione critica della pittura di Boldini, notava Vittorio Sgarbi, è un fatto relativamente recente e riguarda gli ultimi decenni durante i quali l’interesse verso il maestro ferrarese è clamorosamente riesploso. Oggi che la ricerca pittorica di Boldini viene accostata a quella dei grandi letterati del suo tempo – a Proust, a D’Annunzio, a Huysmans, a Edith Wharton, a Henri James –, le esposizioni a lui dedicate si susseguono a tambur battente. Si pensi alla memorabile retrospettiva del Petit Palais di Parigi della primavera scorsa. Si pensi alle recenti mostre organizzate da Tiziano Panconi a Rovereto, a Ferrara, a Bologna.

Quest’ultima rassegna, allestita dallo stesso Panconi ad Asti, a Palazzo Mazzetti (aperta fino al 10 aprile 2023), allinea, seguendo un itinerario cronologico e insieme tematico, un’ottantina di smaglianti dipinti. Ovviamente, la sezione più considerevole è dedicata ai ritratti, spesso di grande formato. Cito un po’ a caso: Mademoiselle de Nemidoff, scelta come immagine guida dell’esposizione; la Signora bionda in abito da sera (Parma, Fondazione Cariparma), uno squisito esercizio sulla leggerezza del pastello; il Ritratto dell’attrice Alice Regnault, dove ai tratti felini del volto e alla perlacea levigatezza dell’incarnato si oppone lo sfondo non finito; La signora in rosa (Ferrara, Museo Boldini), composizione imbastita sui ritmi del colore che, restituendo i riflessi dei tessuti e delle stoffe, dà il titolo al dipinto; Madame Veil-Picard, con la sua sinfonia di neri che pare omaggiare la ritrattistica dei maestri spagnoli del Seicento; il Ritratto di Madame Selignan, immagine di una donna non più giovanissima, ma dignitosa ancora nella sua bellezza un poco sgualcita; il malizioso, civettuolo e ammiccante Ritratto di danzatrice; lo squisito pastello con La contessa de Rasty a letto, giocato sul contrasto tra il nero dei capelli, il rosa morbido delle carni nude e il bianco delle lenzuola… Ma in mostra vi è pure qualche bel paesaggio (À la campagne), qualche pittura di interni, qualche natura morta (i superbi Gladioli rosa e la Natura morta di Rothschild), qualche intenso ritratto maschile (quelli di Edmond Rostand e del piccolo Subercaseaux). Accanto ai quadri di Boldini sono presenti lavori di altri ritrattisti italiani della “Parigi bene” – De Nittis, Zandomeneghi, Corcos, Grosso… –, a significare una certa affinità di cultura, di intendimenti e di maniera, complice la mitica ditta Goupil.

La qualità delle opere selezionate è sempre assai alta e ci consente di apprezzare la capacità di penetrazione psicologica del Boldini “parigino”, “uno dei più grandi ritrattisti dell’intera storia della pittura” (Mazzocca), offrendoci al contempo un’idea precisa del fascino e dell’eleganza di un tempo e di uno stile che ormai non ci appartengono più.

Nicola Rossello

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