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“Goya. La ribellione della ragione” – Mostra a Milano

Francisco Goya, Autoritratto, 1815, Olio su tavola, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid
Francisco Goya, Autoritratto, 1815, Olio su tavola, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid

La mostra monografica su Francisco Goya che si tiene in questi giorni a Milano, nelle sale di Palazzo Reale (visitabile fino al 3 marzo 2024; curatore Victor Nieto Alcaide) riunisce un nucleo significativo di dipinti, incisioni, lastre di rame, offrendoci l’occasione di ripercorrere la produzione pittorica e grafica del maestro aragonese e di confrontarla con i tumultuosi eventi politici e sociali che si susseguirono in Spagna tra la seconda metà del Settecento e i primi decenni del secolo successivo: il tramonto dell’Antico Regime, gli sconvolgimenti delle guerre napoleoniche, la restaurazione dell’assolutismo. Seguendo una doppia scansione cronologica e tematica, la rassegna mira a restituire la biografia dell’artista e, insieme, la complessa, e per certi versi contraddittoria, evoluzione del suo stile figurativo (la ricerca di Goya fu soggetta a processi di rinnovamento continui e radicali, che hanno fatto di lui dapprima un affermato esponente della grazia spumeggiante fin de siècle, in seguito il padre, in pittura, della modernità: sarà Goya a rivendicare per l’artista un ruolo e un linguaggio nuovi, che, sottraendolo ai dettami delle accademie e delle committenze, gli consentissero di dare libera voce alla propria immaginazione creativa, alle emozioni sue più intime, alla sua visione della realtà).

Nei suoi primi lavori Goya si appropria di una certa aggraziata intonazione rococò, imbevuta di leggerezza francesizzante (si pensi alla flagranza cromatica della Primavera, delizioso bozzetto di genere bucolico, o alla divagazione tutta settecentesca di Giovani donne), così come della misura compositiva severa e solenne dell’emergente civiltà neoclassica, per realizzare una pittura intrisa di luminosità che, pur non discostandosi dai precetti accademici imperanti (Goya ebbe tra i suoi mentori Mengs, il principe del Neoclassicismo, la cui lezione è avvertibile nell’Annibale vincitore osserva l’Italia dalle Alpi per la prima volta, una tela giovanile eseguita nel 1771 durante il soggiorno romano dell’artista), è riscattata da un’indubbia freschezza e vivacità esecutiva. Analoga accattivante e ariosa naturalezza di accenti si ritrova nelle briose scene di genere realizzate da Goya in questa sua iniziale stagione creativa: composizioni in cui il gusto del popolaresco, caro alla cultura figurativa settecentesca, è congiunto a una partecipata attenzione alla realtà (la serie dei Giochi dei bambini).

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Il linguaggio di Goya acquista toni di più acuto naturalismo allorché egli descrive la misera esistenza delle classi più umili (il bozzetto del Muratore ubriaco; il ritratto del mendicante cieco El tio Paquete, opera per vero dire più tarda), gettando al contempo uno sguardo critico e severo verso la situazione politica e sociale del suo tempo. Emerge a questo punto la componente “illuminata” della sua arte, su cui ha avuto un peso decisivo la frequentazione negli anni Ottanta degli ambienti liberali madrileni e della corte di re Carlo III. In mostra campeggia, tra i ritratti, quello – superbo nel lasciar trasparire la malinconia altera e la severa dignità dell’effigiato – di Gaspar Melchor de Jovellanos, una delle più nobili figure del pensiero illuminista spagnolo, un eminente uomo politico e di lettere a cui l’artista era legato da devota amicizia e riconoscenza.

La ritrattistica di Goya è ben rappresentata in mostra da alcuni lavori di alto livello qualitativo: penso ai ritratti mondani di Joacquina Candado Ricarte o della Marchesa de Lazan: quadri di fresca immediatezza visiva, dove l’aderenza al vero (che esclude la consueta idealizzazione) e la penetrante capacità introspettiva sono sostenute da una tecnica esecutiva impeccabile, in cui è possibile cogliere richiami a Velázquez (penso anche al ritratto dell’amico e scrittore Moratin o a quello di Don Francisco Garcia De Echaburu) e alla pittura inglese del Settecento. Vi è poi l’indimenticabile immagine che Goya offre di sé nell’Autoritratto del 1815 conservato all’Accademia Reale, uno dei pezzi forti della mostra: un quadro privo di ogni intento celebrativo che, ricorrendo a una gamma cromatica quasi monocroma, ci restituisce il volto di un uomo ormai settantenne, segnato dalle sofferenze della vita, ma che pure conserva, nei lineamenti, qualcosa del carattere volitivo dei tempi andati. Un’opera assai diversa dal Ritratto al cavalletto del 1785, esso pure presente in mostra, in cui Goya si raffigurava al lavoro, davanti a una tela, vestito con abiti dai colori sgargianti. In quel dipinto il maestro aragonese volle dare di sé un’immagine di compiaciuta sicurezza ed energia vitale e ardimentosa determinazione: l’immagine di un artista che vive il momento magico del successo.

Goya fu anche un incisore di immenso talento (qualcuno è arrivato anche a sostenere che è proprio nell’incisione che s’impone compiutamente il suo genio artistico). Libero da ogni costrizione, nelle opere grafiche egli può dare pieno corso a una forte carica inventiva e far emergere, in tutta la sua forza disturbante, il proprio lato visionario, onirico – lo stesso che sarà celebrato, secoli dopo, dai surrealisti. Realizzate con un linguaggio personalissimo e innovativo, benché in esse vibri la grande tradizione di Rembrandt (e Piranesi), le sue opere incisorie più famose ritraevano con feroce spirito satirico i vizi e le superstizioni popolari della Spagna più arcaica (la serie dei Capricci) e restituivano in forme allucinate e implacabili l’insensata violenza della guerra (I disastri della guerra). Dalla prima raccolta, l’unica a essere pubblicata in vita dall’autore (ma su di essa si appuntarono assai presto gli strali dell’Inquisizione), è presente in rassegna anche Il sonno della ragione genera i mostri, un’immagine celeberrima ed enigmatica, variamente interpretata, che, nel significato che le viene più comunemente attribuito (la resa delle forze del raziocinio alle potenze oscure dell’io profondo), verrà letta come un’opera profetica, una prefigurazione degli orrori dei tempi a venire.

Le atrocità della guerra e le delusioni politiche (la caduta in disgrazia di Jovellanos, il fallimento dei moti del 1820, il ritorno all’assolutismo monarchico), così come alcune vicissitudini private (nel 1792 Goya fu colpito da una grave malattia che lo avrebbe lasciato sordo per il resto dei suoi giorni), produssero un deciso cambio di passo nella pittura del maestro. Nella sua tavolozza predominano ormai i neri spessi, i grigi, i bruni scuri. La pennellata acquista una crudezza nervosa, una densità e un’audacia “espressioniste”. La misura del grottesco si carica di accenti angosciosi (La processione dei flagellanti, Il manicomio, Scena di inquisizione). Dalla fosca visione dell’uomo (l’artista lo vede ormai sottomesso alle forze di un Male cosmico, implacabile e inarrestabile) discende nel Goya della fase più matura e celebrata della sua carriera (quella che va dal 1808 in poi) una pittura di misteriosa stranezza e di tragica e vigorosa intensità, popolata da paurosi deliri visivi, incubi di febbre, figure fantastiche, bestiali, deformi. Tipica di quest’ultima maniera è Il colosso, una creazione potente, oltre che di incerta attribuzione (da qualcuno viene assegnata a un allievo di Goya) e di incerto significato: l’essere gigantesco che solleva il pugno, minaccioso, pare rivolgere la sua rabbia verso la folla che, ai suoi piedi, fugge disperata nella notte. Ma c’è anche chi vede in lui un genio benigno che si muove per difendere la Spagna dall’invasore francese. Quale che sia il senso che l’artista ha voluto attribuire all’immagine, si percepisce in essa un senso di inquietudine sorda, angosciosa.

Nicola Rossello

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