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“Anatomia di una caduta”, un film di Justine Triet – Recensione

Anatomia di una caduta

Palma d’oro all’ultimo festival di Cannes, Anatomia di una caduta (il titolo è un chiaro rimando ad Anatomia di un omicidio di Otto Preminger, del 1959) è un film giudiziario realizzato nel rispetto delle regole di un genere codificato che in questi ultimi anni in Francia sta riscuotendo un buon successo: si pensi a pellicole come La corte di Christian Vincent, 2015, L’accusa di Yvan Attal, 2021, Saint Omer di Alice Diop, 2022.

In questa occasione l’indagine verte sulla morte sospetta di un uomo, Samuel, il cui corpo è stato rinvenuto nella neve ai piedi dello chalet sulle Alpi francesi dove egli viveva con la moglie Sandra, una nota scrittrice, e il figlio Daniel, un bambino ipovedente. Una caduta accidentale dal solaio? Un suicidio? Un omicidio? Un’inchiesta viene aperta. Le testimonianze sono confuse. Gli indizi conducono all’incriminazione di Sandra e, un anno più tardi, al processo.

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Ma se il meccanismo “giallo” è teso, come di prammatica, a colmare un vuoto, a fare luce su un’immagine mancante, quella che consentirebbe di sciogliere l’enigma e pervenire a una verità certa, la pellicola di Justine Triet, nel momento stesso in cui assume le cadenze di un dramma processuale, concentra il proprio interesse sulla dissezione delle dinamiche familiari, e sull’ambiguità del linguaggio che quelle dinamiche è chiamato a descrivere.

Emergerà l’anatomia di un rapporto di coppia gravato da sensi di colpa (Samuel è in parte responsabile dell’incidente stradale che ha provocato la perdita della vista di Daniel), frustrazioni e rivalità (l’uomo aspira egli pure, ma vanamente, al successo letterario), risentimenti e gelosie alimentati dal ricordo di antiche infedeltà coniugali, tensioni sulla gestione del figlio.

Al tempo stesso il film diviene una riflessione sul potere manipolatorio della parola, sulla sua incapacità a cogliere la complessità dei fatti reali. Chiamata nel corso del processo a esplorare una relazione familiare per troppi versi opaca, di non facile decifrazione, la parola si rivela inadeguata alla bisogna, venendo assai spesso a ridursi, per gli avvocati, a un’occasione per fare sfoggio della propria incontenibile verve istrionica. E così se il procuratore generale tenterà di desumere da alcuni passi di un romanzo di Sandra le sue intenzioni omicide (la scrittrice coltiva l’autofiction e trae materiale romantico dal proprio vissuto), la difesa vorrà leggere negli sfoghi di Samuel con il suo terapeuta una propensione al suicidio.

Significativo in un film giocato sulle discrepanze tra suono e immagine, il rapporto che assumono verso la comunicazione verbale madre e figlio. La donna, che è tedesca e deve seguire il dibattimento in una lingua non sua, che non padroneggia a sufficienza, chiederà di potersi esprimere in inglese. Daniel, ipovedente e dunque costretto ad affidarsi agli altri sensi, giungerà a tradurre in una dimensione visiva la registrazione audio di un violento litigio tra i genitori che ascolta nel corso del processo.

Giunta al suo quarto lungometraggio, la Triet si conferma uno dei talenti emergenti più interessanti del cinema francese. Con Anatomia di una caduta essa adotta un registro espressivo assai diverso da quello praticato nei suoi precedenti lavori. Alle coloriture scapigliate e accattivanti delle commedie del passato (penso in particolare alla sua notevole prova d’esordio, La bataille de Solférino, 2013, ma anche al corto Vilaine fille mauvais garçon, 2012), succedono qui le lineari e solidissime geometrie di una drammaturgia di rara precisione, dove appare all’evidenza come il segno dell’autrice sia diventato più preciso, compatto e rigoroso. Torna a proporsi lo studio attento delle interazioni coniugali e affettive, e degli equilibri di potere all’interno di una coppia, un tema costante nella produzione della Triet. La quale Triet conferma altresì le sue indubbie capacità nel gestire il gioco attoriale: resta indimenticabile per chiunque abbia visto La bataille de Solférino, la prestazione maiuscola di Vincent Macaigne; strepitosa è qui la prova di Sandra Hüller nel delineare una figura femminile per tanti versi complessa e sfuggente, al tempo stesso vulnerabile e dominante, capace di gelida determinazione, anche nei momenti in cui rischia di essere sopraffatta dalla macchina giudiziaria.

Nicola Rossello

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