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“Hayez. L’officina del pittore romantico” – Mostra alla GAM di Torino

Francesco Hayez, Imelda de’ Lambertazzi, 1853, olio su tela, 122 x 126 cm, Collezione privata, courtesy Enrico Gallerie d'Arte
Francesco Hayez, Imelda de’ Lambertazzi, 1853, olio su tela, 122 x 126 cm, Collezione privata, courtesy Enrico Gallerie d’Arte

Nella prima metà dell’Ottocento, in Francia, la contrapposizione in pittura tra Neoclassici e Romantici visse sull’accesa rivalità tra Ingres e Delacroix ed ebbe il carattere di un conflitto quanto mai aspro, nel quale entravano in gioco inconciliabili antagonismi politici, ideologici, religiosi.

In Italia, dopo la morte nel 1817 di Andrea Appiani, la cultura figurativa neoclassica non poté contare su grandi interpreti da opporre al massimo esponente della scena romantica, e della pittura italiana tout court: Francesco Hayez (1791-1882). Vero è che nel nostro Paese i contrasti che opponevano i due schieramenti rivali non assunsero mai il carattere tumultuoso e la nettezza di contorni che ebbero nei Salon parigini. Ci fu anzi chi arrivò a sostenere che i rappresentanti della nuova pittura di storia nei loro dipinti si erano limitati a rivestire in fogge medioevali i personaggi che sino al giorno prima abbigliavano alla greca o alla romana. Hayez stesso – la bella mostra della GAM di Torino (aperta sino al primo aprile 2024, curata con intelligenza da Fernando Mazzocca ed Elena Lissoni) non manca di documentarlo –, negli anni della sua prima formazione a Venezia e poi a Roma, fu artista convintamente neoclassico e si misurò nelle sue scelte iconografiche con il consueto armamentario mitologico della tradizione greco-romana, rimanendo fedele all’accezione del “bello ideale” propugnata da Winckelmann. Il Laocoonte, L’educazione di Achille e l’Atleta trionfante, tre dei suoi primi impegnativi lavori degli anni Dieci, sono dichiaratamente ispirati alla mascolinità eroica di Canova – Canova che fu suo mentore e protettore, ed ebbe su di lui un’indubbia influenza.

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Anche quando, poi, a partire dagli anni Venti, l’artista sarà eletto corifeo della rivoluzione romantica, il suo metodo di lavoro, ancorato al primato del disegno (Hayez fu un eccellente disegnatore, come rende ben conto la rassegna di Torino, dove alcune sue tele sono messe a confronto con i bozzetti e gli studi preparatori) e alla precisa definizione dei contorni, lo induceva a discostarsi dalla stesura sfrangiata, libera della nuova scuola, e a inseguire il perfezionismo formale e la compiutezza esecutiva, conformandosi alla maniera dei maestri del passato, quelli della grande tradizione veneta, di cui egli si riconosceva erede, e i campioni del classicismo emiliano.

Nel 1820 Hayez è a Milano e qui, cogliendo il clima di grande apertura verso le novità europee che vi si respirava, realizza il suo primo quadro storico di argomento medievale: Pietro Rossi prigioniero degli Scaligeri (non presente in mostra). Il successo fu immediato. L’opera suscitò un enorme entusiasmo e venne salutata come l’emblema, in pittura, del Romanticismo italiano. Da quel momento, Hayez divenne l’interprete degli ideali risorgimentali, il pittore vate che, rievocando episodi memorabili di storia patria (dietro cui era agevole leggere allusioni alla realtà del presente), esortava gli Italiani a riflettere sul proprio glorioso passato e a trarne nutrimento. Si arrivò a ritenere che Hayez potesse esercitare in pittura quella funzione educatrice e morale, atta a risvegliare i sentimenti patriottici, che negli stessi anni nel campo delle lettere andavano svolgendo Manzoni, Berchet, Pellico, e che di là a poco sarebbe stata assunta dal melodramma verdiano.

Il superamento del gusto neoclassico non riguardò unicamente la pittura di storia, una pittura riferita a vicende significative del passato nazionale (Pietro l’eremita, La congiura dei Lampugnani) o ad avvenimenti più recenti (I profughi di Parga), ma sempre basata sul racconto, sulla narrazione: su vaste composizioni affollate da numerose figure disposte in pose eloquenti, secondo una ben studiata teatralità. L’adesione alla sensibilità romantica comportò soprattutto il ricorso a un linguaggio nuovo, meno severo e solenne, che, nell’illustrare passioni forti, assumeva una carica espressiva più concitata ed esuberante, di grande impatto emotivo.

A Torino la Maddalena penitente di Canova è messa opportunamente a confronto con due Maddalene di Hayez, una proveniente dalla GAM di Milano, l’altra dalla collezione Franco Maria Ricci. In queste ultime composizioni si avverte una tensione che ben si discosta dal severo equilibrio della scultura canoviana. Allo stesso modo, nella straordinaria galleria dei suoi ritratti – un genere pittorico in cui Hayez eccelse, soprattutto come interprete della bellezza muliebre – l’artista ricusa l’idealizzazione neoclassica e la retorica celebrativa, per muoversi nella direzione di moderato realismo, ricorrendo a una tavolozza sobria, castigata, e a uno stile rigorosamente nitido e lineare, che favorisse un’acuta introspezione psicologica del personaggio effigiato (nella bella sezione della mostra dedicata alla ritrattistica, svetta sicuramente la tenera immagine della Contessina Antonietta Negroni Prati Morosini bambina; si notino pure i vari autoritratti, quelli in particolare, realizzati in età matura, provenienti da Lovere e da Venezia).

Dopo le delusioni del ’48 (La meditazione di Verona ne è l’immagine emblematica, e indimenticabile), si può cogliere un’evoluzione nella maniera di Hayez. Accantonato l’impegno nel campo della “pittura civile” (gli anni romantici sono ormai agli sgoccioli…), le istanze patriottiche, anche nei quadri di storia o di ispirazione letteraria, lasciano il posto al dramma passionale e all’effusione dei sentimenti. Un “disimpegno”, quello di Hayez, che sarà talora oggetto di dure critiche, ma che non impedirà al maestro veneziano, ormai trapiantato a Milano in pianta stabile, di popolare le sue tele di eroine tragiche, segnate da un destino infausto. Capolavori di grande intensità melodrammatica, come Accusa segreta, Il consiglio alla vendetta, Imelda de’ Lambertazzi, Ultimo addio di Giulietta a Romeo, risentono indubbiamente, nel loro inseguire un pathos di intonazione teatrale, del nuovo clima tardoromantico che si andava diffondendo in quegli anni anche in campo letterario.

Si fanno sempre più frequenti a questo punto le incursioni nell’orientalismo, un genere allora in auge soprattutto in Francia, dove il gusto dei lontani orizzonti nutriva la pittura di Ingres, Delacroix, Gérôme, Chassériau, Horace Vernet. Il soggetto orientale in Hayez viene a tradursi in composizioni di squisita tenuta descrittiva dove, stagliate contro sfondi esotici semplificati, dai colori smorzati, eroine dell’Antico Testamento, segnate in volto da un’ombra di mestizia (Ruth, Rebecca, Tamar di Giuda), diventano nudi femminili di compiaciuta bellezza e superba sensualità, capaci di tenere testa ai nudi lussuosi di un Cabanel. Anche una tela come Bagno di ninfe, nel riproporre un soggetto mitologico già tante volte illustrato dalla pittura rinascimentale, lasciava emergere, nella resa dei corpi, una carnalità tutta moderna.

Hayez fu un artista versatile. Accanto alla sua produzione più nota e acclamata, sono presenti in mostra alcune memorabili prove di pittura religiosa. I due apostoli Giacomo e Filippo, una magnifica tavola segnata da un voluto arcaismo stilistico, recupera la levigatezza di tocco e i colori smaltati e vibranti dei primitivi del Quattrocento (significativamente, il bianco, il rosso e il verde delle vesti richiamano la bandiera italiana). Ma il brano più ragguardevole è certo l’Angelo annunziatore, altra tavola essa pure impostata sulla forza del colore (lo splendido blu lapislazzuli) e sulla dolcezza e cristallina morbidezza dei contorni che richiamano il purismo dei Nazzareni. Nel volto androgino dell’Angelo è da riconoscere Carolina Zucchi, musa del maestro veneziano, che la ritrasse in numerose occasioni. È l’immagine che forse meglio di ogni altra riassume il fascino sottile e segreto della grande pittura di Hayez.

Nicola Rossello

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